Cronache dalla grotta / La vigilanza e san Giuseppe

di Rita Bettaglio

Come forse qualcuno avrà notato, mi trovo attualmente a vivere in una grotta. Ma, direte voi, che tipo di grotta? Una caverna di pietra, scavata nella roccia, in un’erta pressoché inaccessibile? Un anfratto interiore ricavato nel turbinio del mondo?

Un po’ dell’una, un po’ dell’altro, direi. E, come si sentì rispondere il sommo poeta, più non dimandar.

Ebbene, anche nella mia grotta è Quaresima e la Quaresima è la stagione clou per una grotta, quando essa esprime al meglio il suo ruolo, si sente una vera grotta, con una vocazione evidente. La grotta in Quaresima è contenta perché si sente più amata e apprezzata del solito. La grotta, infatti, sente la responsabilità di essere come un cavo della mano di Dio, che raccoglie, protegge e distilla l’anima di chi vi risiede stabilmente.

In questi giorni, in questo nido, riflettevo sulla vigilanza. Che significa essere vigilanti? È ovvio che non sia possibile a noi, stirpe d’Adamo, stare svegli e attenti giorno e notte. Non lo fecero neppure le vergini sagge: il Vangelo infatti dice che tutte, sia quelle sagge sia quelle stolte, si addormentarono e dormirono.

Per vigilare, soprattutto su di sé, occorrono occhi e cuore puri. Se sono torbidi, non si vede bene, è esperienza naturale e comune a tutti: nella nebbia, esteriore e interiore, si colgono ombre, affatto nitide. Come ottenere cuore e occhi puri? È l’uomo in grado di acquistarli da sé stesso?

Mentre questo interrogativo s’aggira nella mia mente, anche nella grotta è arrivato marzo e, con esso, san Giuseppe. Si tratterrà tutto il mese e io cercherò di trarre il maggior vantaggio possibile dalla sua presenza.

Chi meglio di lui è stato vigilante e pronto ad accogliere i voleri di Dio e custodirne il Figlio?

Papa Leone XIII, autore della bellissima preghiera A Te, o beato Giuseppe, lo definì, nella Quamquam pluries, il più sublime modello di paterna vigilanza e provvidenza. Essa non gli veniva unicamente da virtù umane, di cui egli era, evidentemente, provvisto in modo eccelso, ma da Dio stesso, che donava grazia e luce alla sua anima così pura.

Perciò cercherò di sfruttare al massimo la sua presenza. Lo pregherò, lo interrogherò e, anche se non pare essere stato uomo di molte parole (il santo Vangelo non ne riporta neppure una), sono certa che m’insegnerà molto.

Riuscirò a imparare qualcosa? Sarò docile alla voce di Dio come fu Giuseppe?

Santa Teresa d’Avila ebbe così tante e tanto grandi grazie dal “provvido custode della divina famiglia” da affermare: “Io vorrei persuadere tutti a essere devoti di questo glorioso Santo, per la grande esperienza che ho dei beni che ottiene da Dio”.

Insieme al Rosario, preghiera contemplativa per eccellenza, in questo mese di marzo contemplerò i sette dolori e le sette allegrezze di san Giuseppe, secondo un’antica devozione che risale a fra’ Giovanni da Fano, cappuccino vissuto tra il ‘400 e il ‘500.

Ite ad Joseph, andate da Giuseppe, disse il faraone ai tempi della carestia in Egitto. Così esortò anche Pio XII: “Se volete essere vicini a Cristo, Noi anche oggi vi ripetiamo Ite ad Joseph. Andate da Giuseppe!”

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