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Meriam deve vivere. venerdì 16 maggio 2014 Meriam deve vivere di Antonio Sanfrancesco «Ti abbiamo dato tre giorni di tempo per rinunciare, ma insisti nel non voler ritornare all’Islam. Ti condanno a …Altro
Meriam deve vivere.

venerdì 16 maggio 2014

Meriam deve vivere

di Antonio Sanfrancesco

«Ti abbiamo dato tre giorni di tempo per rinunciare, ma insisti nel non voler ritornare all’Islam. Ti condanno a morte per impiccagione». Con queste parole il giudice Abbas Mohammed Al-Khalifa di un tribunale di Kharthoum, in Sudan, ha condannato a morte per apostasia – anche se, di fatto, non c’è stata nessuna apostasia – una donna cristiana, incinta di otto mesi e con un bimbo piccolo. Verrà impiccata ma la pena prevede anche cento frustrate.

Il calvario dei cristiani perseguitati e uccisi non s’arresta e s’arricchisce di un altro, tragico capitolo. Meriam Yeilah Ibrahim, 27 anni, di professione medico, ha un figlio di 20 mesi che si trova con lei in carcere. Il magistrato che l’ha condannata ha stabilito che ha abbandonato la sua fede, in quanto il padre era musulmano, e l’ha anche condannata a 100 frustate per adulterio in quanto sposata con un cristiano con un matrimonio che non è considerato valido dalla “sharia”, la legge islamica che nel Paese africano è fonte della legislazione e si applica anche ai non musulmani.
La sharia, infatti, prevede la pena di morte per apostasia dall’islam (ma non dalle altre religioni all’islam) ed è inoltre vietato alle donne musulmane sposare uomini di altre religioni. Dal 1956, la condanna a morte per apostasia è stata comminata una sola volta, nel 1985, a Mahmoud Muhammad Taha, musulmano riformista punito come eretico.
La condanna a morte di questa donna è assai preoccupante perché da decenni chi viene sospettato di questo reato riceve “solo” anni di carcere o pene pecuniarie ma non la pena capitale. Il giudice le aveva chiesto di rinunciare alla fede per evitare la pena di morte: «Ti abbiamo dato tre giorni di tempo per rinunciare, ma insisti nel non voler ritornare all’Islam».
La giovane ha reagito senza tradire emozione quando la sentenza è stata letta. Poco prima, un imam era entrato nella gabbia degli accusati e le aveva parlato per circa 30 minuti. Al termine, lei si è rivolta al giudice e con calma ha detto: «Sono cristiana e non ho mai commesso apostasia».
In realtà, la donna non ha mai abiurato la religione islamica perché è sempre stata, di fatto, cristiana. È nata, infatti, da padre sudanese musulmano e madre etiope ortodossa; abbandonata dal padre quando aveva 6 anni, Meriam è stata cresciuta nella fede cristiana. Ma poiché il padre è musulmano, è considerata tale dal diritto sudanese, il che rende nullo il matrimonio con chi non è musulmano.
L’anno scorso, un uomo che ha affermato di essere un parente di Ibrahim, ha denunciato la donna dichiarando che era stata cresciuta come una musulmana e si era poi convertita al cristianesimo. Per questo la giovane, sposata con il cristiano Daniel Wani, è stata anche accusata di “adulterio”, non essendo riconosciuto dalla legge un matrimonio tra una musulmana e un cristiano.
Amnesty International ha definito “ripugnante” che una donna possa essere condannata a morte per la sua fede religiosa, o frustata perché sposata a un uomo di religione diversa. A difesa di Meriam, in attesa della sentenza, erano già scese in campo alcune ambasciate occidentali a Khartoum. «Chiediamo al governo del Sudan», avevano scritto in comunicato diffuso in maniera congiunta dalle rappresentanze di Usa, Gb, Canada e Olanda, «di rispettare il diritto di libertà di religione, compreso il diritto di ciascuno di cambiare la propria fede o le proprie credenze, un diritto che è sancito dal diritto internazionale e dalla stessa Costituzione ad interim sudanese, del 2005». Nel comunicato, si chiedeva anche «alla magistratura sudanese di affrontare il caso della signora Meriam con giustizia e compassione, in linea con i valori del popolo sudanese».
Ora, dopo la sentenza comminata l’11 maggio, è partita una mobilitazione internazionale. «Con un click puoi contribuire a salvare la vita di un’innocente». Con questo slogan Italians for Darfur ha lanciato un appello, che ha già raccolto centinaia di firme, per salvare la donna sudanese. Italians for Darfur ha dunque chiesto di firmare l’appello «per scongiurare l’esecuzione della pena», così come avvenne per il caso di Intisar e Layla, due donne condannate alla lapidazione per adulterio.
L’organizzazione ha poi precisato che le firme raccolte saranno inviate al presidente del Sudan Omar Al Bashir, l’unico che può concedere la grazia e che può scongiurare una «atroce ingiustizia».

fonte: Famiglia Cristiana